IL GRANDE SPIRITO, LA RECENSIONE: TARANTO COME IL VECCHIO WEST

Forse ognuno meriterebbe la propria “terra sacra”, quello spazio sospeso tra sogno e realtà in cui sperare non è un reato e dove la ricerca del riscatto ha la faccia di un bizzarro pellerossa del Sud Italia. Come succede nel nuovo film di Sergio Rubini, di cui vi parleremo nella recensione de Il grande spirito in sala dal 9 maggio, titolo che riporta il regista pugliese alla visceralità degli esordi (La stazione, Tutto l’amore che c’è, La terra). 
Una storia che non obbedisce alle regole di un solo genere, ma che ha la capacità di attraversare con leggerezza – ma non senza difetti – diversi registri: dalla favola western al racconto neorealista, dalla commedia nera al dramma dalle tinte malinconiche. L’impianto fortemente teatrale del film è il frutto di un lavoro di scrittura meticoloso nella stesura dei dialoghi e nella definizione delle ambientazioni, realizzato dallo stesso Rubini insieme a Carla Cavalluzzi e Angelo Pasquini. Ma Il grande spirito è soprattutto narrazione degli ultimi, oltre che affresco metaforico e ricco di simbolismi di una città, Taranto, che vive del respiro ingombrante delle ciminiere dell’Ilva e la cui storia evoca per assonanza quella delle leggendarie praterie del vecchio West colonizzate dagli yankee.Il Grande Spirito – Trailer Ufficiale HdIl trailer italiano per il film Il Grande Spirito

UNA TRAMA DA WESTERN SURREALE

Taranto come le riserve dei nativi americani, l’Ilva come l’irruenza dell’uomo bianco che ha spazzato via boschi, bisonti e tribù. La trama de Il grande spirito parte da questa similitudine e prima ancora da una rapina in un quartiere della periferia tarantina, dove lo scombinato e claudicante cinquantenne Tonino (Sergio Rubini), ex galeotto, decide di rubare il bottino ai propri complici e scappare. Il motivo? Rivendicare un passato criminale di tutto rispetto agli occhi di chi ha ridotto quell’onorato curriculum delinquenziale all’umiliante appellativo di “Barboncino”, per essersi macchiato di un errore fatale.
La fuga rocambolesca di Tonino finisce sopra i tetti di Taranto: troverà rifugio nel vecchio lavatoio di una terrazza condominiale, abitato da un povero matto, Renato (Rocco Papaleo). Bandana rossa in testa e piuma d’uccello dietro l’orecchio, Renato è convinto di essere un Sioux, dice di chiamarsi Cervo Nero, sogna di andarsene in Canada e aspetta l’Uomo del destino, che il caso vuole sia proprio Tonino, almeno stando a quanto preannunciato dal Grande Spirito. È lì, nel luogo improbabile dell’immobilità e della sospensione del tempo, che Tonino completamente solo e con i complici beffati alle calcagna, dovrà affidare la propria salvezza allo squilibrato pellerossa e alla sua dolente amica Renata (Ivana Lotito), “madre coraggio”, che per sbarcare il lunario e affrancarsi da un marito violento regala attimi di piacere a loschi figuri e fa le pulizie del condominio.

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Il Grande Spirito: una scena del film

Il ritmo del film segue inizialmente quello dei duelli da polveroso Far West, ma gli spari, le cadute disastrose e il rimbalzare delle pallottole si sposta dalle sconfinate praterie del selvaggio West allo spazio circoscritto di una terrazza: Sergio Rubini affida il riscatto di Taranto a quel microcosmo il cui capo incontrastato è Cervo nero.
Dal western alla favola neorealista il passo è breve: ci si arrampica per scale di fortuna, si vola sui tetti di Taranto con improbabili acrobazie da parkour, si finisce rovinosamente a terra in cantieri scalcinati e l’immaginifico si mescola al reale ineluttabile, doloroso e autentico evocato dal dialetto dei personaggi in scena. Le parole biascicate, urlate o sussurrate diventano musica insieme alla trascinante colonna sonora di Ludovico Einaudi, la lingua è strumento.
Perdonabile qualche lungaggine di troppo soprattutto nella parte centrale del film, come in alcuni momenti l’assenza di organicità nel passaggio alla riflessione sull’attualità.

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I PERSONAGGI DI SERGIO RUBINI E ROCCO PAPALEO: REIETTI E RIBELLI

Sergio Rubini dirige e recita, ha il controllo della scena sia dietro che davanti alla macchina da presa e si cuce addosso un personaggio dinoccolato e malconcio, scapestrato e zoppicante, ferito dentro e fuori, che non esisterebbe senza la sua controparte: quel Cervo Nero, un po’ “scemo del villaggio” un po’ Forrest Gump, che crede di essere un Sioux e al quale Rocco Papaleo regala tutta la sua poesia da giullare. 
Insieme sono i protagonisti di un cammino di redenzione che va dal basso verso l’alto: dalle fornaci dell’Ilva ai riti sciamanici improvvisati da Renato in quel buco di lavatoio.

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Il Grande Spirito: Rocco Papaleo durante una scena del film

La cifra stilistica che accompagna il bizzarro duetto è quella della comicità amara, malinconica e di smisurata tenerezza. Una coppia improbabile nella vita reale, ma che in questa vicenda di reietti e perdenti, rabbia e speranza, trova il suo posto alimentandosi del cortocircuito comico che innesca per sua stessa natura. A nutrire il vissuto dei singoli personaggi è la definizione degli ambienti: un condominio brulicante di storie e voci, la fabbrica che incombe sullo sfondo, i vicoli che profumano di mare, la favola che sonnecchia dentro la testa di Cervo Nero. Ci si sporca e ci si eleva, si precipita nel sottobosco criminale e l’attimo dopo ci si perde nelle visioni oniriche. La magia salva tutti.

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