American Gods 2×07, la recensione: se il mito tradisce la verità
Un vecchio detto dice che del viaggio non bisogna ricordare la meta ma godersi il percorso, il tragitto, lo spazio che separa la partenza dal traguardo. Apriamo la recensione di American Gods 2×07 con questo vecchio e abusato proverbio perché crediamo sia perfettamente calzante con una serie tv on the road innamorata delle deviazioni. La serie tv tratta dal visionario romanzo di Neil Gaiman è un depistaggio continuo, il rifiuto categorico a seguire una via maestra in cui prendere per mano lo spettatore lungo una strada prevedibile e rassicurante. No, perché alla certezza American Gods preferisce lo spaesamento, alle conferme antepone lo straniante.
Questa seconda stagione prometteva una guerra imminente tra Nuovi e Antichi dei, un conflitto inevitabile tra entità destinate a scontrarsi perché incapaci di convivere nell’America contemporanea, una nazione che diventa ambasciatrice di tutto il mondo occidentale. Dei da venerare o da temere, dei che tolgono ai fedeli per essere riveriti (gli antichi), dei che donano per ottenere riconoscenza (i nuovi) finalmente pronti a scontrarsi in una battaglia definitiva. Bene, arrivati alla penultima tappa di American Gods 2, possiamo affermare con certezza che questa guerra tanto promessa e bramata è davvero un pretesto per approfondire il senso del mito nel mondo di oggi. Un’ottima scusa per vivisezionare il valore delle leggende e delle icone in un mondo che avrà sempre bisogno di figure da idolatrare. Che sia un antico dio norreno o uno scintillante social media, poco importa.
Questo Treasure of The Sun si permette il lusso di ignorare questa fantomatica guerra (che abbiamo persino smesso di aspettare) per soffermarsi sul passato dimenticato, rimosso e misterioso di Mad Sweeney, personaggio affascinante finora rimasto nell’ombra di questa seconda stagione. Chi è davvero quell’ubriacone iracondo capace di spurgare monete d’oro dalle mani? Ce lo svela un episodio “vecchio stampo” di American Gods, ovvero dedicato a un’antica storia che ci ammalia con immagini bellissime di una serie tv che della meta continua a fregarsene.
Storia di un leprecauno: rosso e verde d’Irlanda
Puzza di sesso occasionale e di pessimo whisky, ha l’odore del fallimento e del rancore. Mad Sweeney si è trascinato fino qui confermando lo stereotipo di personaggio maledetto, a disagio nel suo ineluttabile ruolo di galoppino di Odino, marionetta manipolata in tutto e per tutto. Fedele ma mai servile, questa creatura che vive soltanto il presente senza curarsi del suo passato e del suo futuro, un uomo che si aggrappa al vizio e ai piaceri fugaci perché non sa immaginarsi lontano dai suoi “qui e ora”. Arrivato alla fine della seconda stagione come tuttofare (è stato assassino, guida, guardia del corpo), Mad Sweeney è sempre stato associato alla figura del leprecauno, bizzarra creatura del folklore irlandese, noto come il ciabattino delle fate tanto innocuo quanto attaccato ai suoi tesori nascosti. Un folletto furbo, uno gnomo cantastorie, in ogni caso un essere innocuo, destinato ad obbedire a qualcuno di molto più grande e potente di lui.
Il grande colpo di scena di Treasure of the Sun (titolo dedicato allo stesso Mad Sweeney) è la grande menzogna di questo mito. Altro che piccolo leprecauno, il nostro rosso irlandese si era ubriacato con le sue stesse bugie, era annegato nella confusione del suo passato misterioso, aveva rimosso il suo stesso mito glorioso. Mad Sweeney era un grande dio-re, protettore della nobile terra d’Irlanda, del sole, della fortuna, dell’arte. Valoroso combattente, noto come “colui che brilla”, Mad Sweeney finalmente si ricongiunge con le sue radici celtiche, ripudia la dittatura di Odino e pronuncia una battuta semplice quanto significativa: “Io non sono piccolo“. Piccolo lo hanno fatto diventare le storie, le canzoni e i miti che lo hanno manipolato, umiliato, ridotto a servo delle fate in un mondo in cui non c’era più spazio per un pericoloso dio-re.
Lo strapotere delle storie
Il tempo è la fortuna delle storie. Ecco perché un mito vincerà sempre su qualsiasi nuovo racconto. Ecco perché anche la trama di American Gods si inginocchia dinanzi alle leggende che la serie onora e rievoca con grande amore e devozione. Per quanto sembri paradossale, lo show Starz si fa preferire proprio quando evade dalla sua retta via e sconfina nelle ammalianti e antiche narrazioni a cui ci ha ormai abituato. “Le storie sono più vere della verità”, dice il saggio Mr. Ibis, una frase illuminante che descrive alla perfezione il triste destino di Mad Sweeney, ridimensionato dall’approdo della religione cristiana, che attraverso monaci grigi, chiese, vescovi e preti ha imposto le sue storie e ridotto il passato irlandese a semplice folklore popolare privato di epica e nobili origini. Mentre le sequenze di Laura Moonci appaiono appiccicate senza molta coerenza con il tono drammatico e solenne di questo episodio, l’orgoglio ferito di Mad Sweeney si ridesta come magma in un vulcano per troppo tempo dormiente.
E così la ribellione nei confronti di Odino, che lo ha sempre sottomesso compiacendosi di averlo come tuttofare, è inevitabile e irruenta. Inevitabile come il faccia a faccia con Shadow Moon, che con Sweeney condivide questo destino di sottoposto al volere del dio norreno, sempre più insopportabile nei panni di vanaglorioso burattinaio. American Gods inizia a spezzare con violenza i fili delle sue marionette, mentre noi spettatori ci accorgiamo di tifare per i ribelli, per chi è stanco di essere comandato, di essere scritto dagli altri, e vuole finalmente impugnare una penna e intingere l’inchiostro nel proprio destino.